Vicende di precariato e considerazioni di un Docente (lungo, ma merita di essere letto!)
Quando mi è stato proposto di parlare di precariato e delle mia condizione in quanto campione, rappresentativo o meno, dei docenti precari biellesi, ho pensato a come iniziare questo intervento e ho fatto una cosa che mi ripeteva sempre la mia professoressa di italiano: qualora non avessi saputo qualcosa, avrei dovuto ricercare, approfondire e risolvere da solo le mie lacune.
Dico questo perché pensare alla parola precario non mi dà una buona sensazione, è per me indice di instabilità, incertezza e la associo inevitabilmente alla scuola, quasi come se fosse peculiarità indispensabile di un sistema ultra-collaudato. Non soddisfatto della spiegazione che mi sono dato, apro il dizionario e leggo. PRECARIETA’: provvisorietà contrassegnata dall’attesa di un peggioramento; PRECARIO: colui che è contraddistinto da condizione provvisoria costantemente minacciata dal sopraggiungere di eventi pericolosi o addirittura catastrofici; PRECARIA: istituto medievale atto alla concessione di benefici per una durata temporale a termine e gestito da un precarista.
Mi rendo conto perciò di due cose, la prima: tale condizione non è propria solo dei nostri tempi, ma proviene da molto lontano; la seconda, con rammarico: anche il dizionario individua il termine rendendolo tipico di chi si occupa dell’insegnamento. Sembra quasi una condanna imposta anche dalla lingua italiana!
Aldilà dell’ironia di queste definizioni, oltremodo calzanti sulla situazione odierna in cui versano numerosi lavoratori della scuola, poco hanno da sorridere insegnanti, personale amministrativo e bidelli visto quanto successo dal 2009 sino ad oggi e quanto è previsto per il biennio 2011/2012: qui nel biellese si parla di 100 insegnanti in meno nel biennio 2010/2011 e per il prossimo anno scolastico si prevedono altri 77 posti in meno; su scala nazionale, invece, si parla della perdita di decine di migliaia di posti di lavoro.
Quando per la prima volta mi affacciai al mondo della scuola, nel 2008, ebbi subito la sensazione che parole come stabilità, programmazione, organizzazione e fiducia non facessero parte del sistema in cui mi stavo inserendo. Non c’era stabilità nel lavorare sul medio-lungo termine, non c’era programmazione nell’adibire il personale a disposizione all’uno o all’altro luogo; non c’era organizzazione del lavoro; non c’era fiducia per la propria condizione di lavoratore della scuola.
La mia prima supplenza fu acrobatica, così la definii: il mio contratto iniziò ad anno scolastico già in corso e terminò con la sospensione delle lezioni per le festività natalizie, per ripartire dopo queste fino ad arrivare a quelle pasquali e così via fino all’estate. Il mio futuro poteva essere programmato con una certezza di due mesi, poi il nulla…davanti a me un cammino dove il prossimo passo avrebbe potuto non trovare appoggio! Lavoravo su una cattedra lasciata vacante da un libero professionista in aspettativa che all’insegnamento poco ci teneva e che quindi, nella sostanza, mi lasciava il suo scarto. Allibito, basito, incredulo che il mio futuro avesse “luce” per intervalli di soli tre mesi scarsi; arrabbiato, deluso, impotente di fronte al disprezzo e al diniego con cui taluni si pongono nei confronti di questa professione, non la finii quella supplenza. A malincuore, ma non arrivai al termine dell’anno scolastico, con sommo rammarico per quanto ci avevo messo per essere all’altezza dei ragazzi e della professione in ciascuna delle lezioni, con tristezza per lasciare alunni cui mi ero affezionato ed un mondo divenuto amico pur con tutte le sue mancanze e difetti.
Vi ritornai nella scuola, caparbiamente, mesi dopo, questa volta su una cattedra normale, lasciata libera da chi andò in pensione dopo aver dato il suo giusto contributo. Pensai perciò di essere sistemato, ora il mio quotidiano aveva sicurezze per i successivi dieci mesi e c’erano buone prospettive per il futuro più prossimo. Mai convinzione fu più errata e ben presto venne funestata da quella costante minaccia di improvviso peggioramento che accompagna il precario come una nuvola di fantozziana memoria: scoprii così che, proclamando i punti programmatici della famigerata Legge 133, l’attuale Ministro dell’Economia e delle Finanze in trenta secondi stilò la più massiccia opera di tagli alla Pubblica Istruzione che sia mai stata realizzata, con il beneplacito di un’evanescente Ministro dell’Istruzione e le cui cifre menzionate poco fa sono l’effetto subitaneo e ben visibile, ma cui seguiranno ulteriori conseguenze non solo nella Scuola, ma anche nella società, negli anni a venire.
Fu però un anno scolastico discreto, se dovessi fare una media: ottimo per la vita in classe, l’insegnamento, le attività a latere; pessimo per il resto, con notizie sempre più preoccupanti sulla disponibilità di cattedre ed ore di insegnamento per ogni materia di cui potessi occuparmi. Alcuni termini, così, diventarono terribilmente più che familiari: capii cosa significasse I fascia (docenti precari vincitori di concorso ordinario), II fascia (docenti a tempo determinato abilitati all’insegnamento) e III fascia (docenti a tempo determinato non abilitati), una discriminazione che tutt’oggi crea ovvie tensioni tra i precari e classifiche avulse modificabili con meccanismi subdoli ed egoisti, come se ci fossero insegnanti di serie A, B e C con tutte le rispettive sottocategorie.
Fui impotente di fronte all’impossibilità di passare in II fascia, poiché i corsi di abilitazione per la mia classe di concorso sono inattivi da anni. Fui desolato nel constatare che la riforma avrebbe tolto ore di lezione ai vari indirizzi di scuola superiore portando tutto a 32 ore settimanali, contro le attuali 36 o 40; fui abbattuto nell’animo nel verificare che tra le più colpite c’erano e ci sono le materie tecniche, fondamento degli istituti tecnici e professionali.
L’estate di quell’anno fu un po’ un calvario, da una parte sorretto dal sussidio di disoccupazione poiché il mio contratto terminò il 30 giugno, dall’altra parte dalle speranze che, nonostante il flagello ad opera del ministro-precarista, potessi avere una cattedra. Tutto ciò accompagnato dall’apnea costretta verso i miei progetti e sogni per il futuro.
E cattedra fu. Non completa per numero di ore, ma pur sempre cattedra: oggi insegno in un istituto professionale, ma la mia situazione non è cambiata di molto, anzi, ai precedenti problemi si è aggiunto l’aggiornamento biennale delle graduatorie con la tanto temuta e possibile “invasione” da parte dei lavoratori di altre province e regioni, cui in ogni caso va sommato il continuo ed inesorabile ridursi delle ore di materie tecniche e laboratori con naturale diminuzione di personale.
Questo non riguarda solo le mie materie, ma tante altre: si riducono le ore di italiano e storia (che brutto che i ragazzi non sappiano parlare bene la nostra lingua e non conoscano il passato, anche quello più recente…come possono capire il presente ed avere un futuro?), si riducono le ore di francese ed inglese (l’Unione Europea invece sostiene e promuove il multilinguismo ed il Libro Bianco di Lisbona auspica che il cittadino europeo sappia due lingue oltre alla propria), diminuiscono le ore di matematica, informatica e laboratori in genere…
Sorgono spontanee delle domande: ma come?!? I ragazzi non dovrebbero forse saper meglio le lingue? E la matematica non dovrebbe esser insegnata in modo moderno e con l’ausilio del PC? E non dovrebbero saper usare al meglio computer ed internet? (le tre famose I del governo Berlusconi 2001-2006…) I ragazzi non dovrebbero imparare-facendo piuttosto che basarsi solo sulla teoria? E ancora: Perché non si ascoltano le lamentele di industriali ed artigiani che rilevano la sempre maggior mancanza di figure tecniche e professionali? Perché negli istituti professionali si riducono proprio le ore di laboratorio che erano il loro punto di forza? Perché l’orario di questi istituti è sempre più inutilmente simile a quello di un liceo? Perché l’autonomia scolastica permette una “guerra civile” tra scuole che condanna all’estinzione alcune di esse? E guardando più in là: Perché si propone forzatamente la formazione universitaria, quando il tasso di dispersione scolastica a quel livello è aumentato negli ultimi anni e le iscrizioni sono diminuite?
Ebbene, non c’è logica in tutto ciò, semplicemente si guardano le classi di concorso più affollate e si parte da quelle con la riduzione ore, si rilevano quelle materie che hanno insegnamento teorico e pratico, togliendo buona parte del primo e quasi totalmente il secondo. Tagli lineari, insomma, senza alcuna competenza di didattica ed educazione, regole volte a soffocare ogni pertinenza con la confluenza delle classi di concorso e la difesa dell’organico di diritto, che potrebbero consentire ad insegnanti di occuparsi di materie su cui sono ben poco competenti. Il motto è chiaro, l’intento altrettanto: la classe docente, teorica o pratica che sia, è sovrabbondante e come tale va sfoltita così come il personale tecnico ed amministrativo…insomma, un po’ come sfoltire una siepe o potare un albero, ma senza curarsi se ciò porti giovamento o meno.
Le conseguenze sono terribili, in termini di funzionamento pratico delle scuole, in termini di insegnamento con classi sovraffollate e apprendimenti monchi, eppure le famiglie non sembrano curarsene, come se la scuola andasse avanti lo stesso e bene, anzi, forse si stanno quasi convincendo che questi tagli siano utili e giusti.
Precario vuol dire anche questo, per un insegnante, ossia uno stuolo di luoghi di comuni che si appiccica addosso e diventa parte integrante del suo mondo: e allora ci sono quelli che ”ma lavorano solo 18 ore a settimana”, quelli che “ma hanno tre mesi di ferie all’anno”, quelli che “insegna perché non sapeva fare altro”, quelli che “ insegna perché non ha voglia di lavorare”, quelli che “insegna perché non vuole una vita stressata” e tanti altri. Tutti sbagliati. Nessuno pensa che un insegnante prepara le lezioni, prepara le dispense per i ragazzi, programma ed organizza le esercitazioni e le attività di laboratorio, prepara e corregge verifiche, stila programmi e resoconti di lavoro, organizza corsi di recupero, fa ricevimento parenti, partecipa a consigli di classe, collegi docenti, scrutini, incontri con psicologi e tutto questo sono ore ed ore di lavoro. Soprattutto, l’insegnante parla con i ragazzi, dà loro attenzione e comprensione, ne ascolta le confidenze e le opinioni, cerca di capirne i problemi, le difficoltà e prova a risolverli insieme, li vede crescere, cerca di educarli e stimolarli ad esprimere sé stessi e il loro talento, al meglio e in tutta la loro pienezza, perché questa è la base di una vita serena e colma di successi. Non inculca niente, né idee, né modi di vivere, né modi di pensare o agire.
Quanto c’è, allora, in quelle “solo” 18 ore di lavoro che non si vede…
Non si vede neppure il risultato di questo lavoro nell’immediato. Certo, quando l’individuo si sta formando è un continuo mutamento dovuto in parte alla vita del singolo, in parte alla famiglia, in parte alla Scuola. Quante volte, però, è capitato a ciascuno di noi di ricordare a noi stessi, ad amici, ai propri figli di quel professore piuttosto che di quell’altro… ebbene, in quel preciso momento ci rendiamo conto che quell’insegnante ci ha lasciato qualcosa nel percorso fatto insieme e, di fatto, saremmo magari persone diverse; ha cambiato qualcosa in noi, ha stimolato, allora inconsciamente, una parte di noi che ci ha reso come siamo oggi.
Ecco perché appare ancora più assurdo voler stabilire una classifica di merito tra gli insegnanti su qualcosa che è etereo ed in continuo divenire: quando l’allievo ha un suo posto in società, ne è parte attiva ed integrante allora, e solo allora, si potrà dire se la Scuola abbia fatto o meno il suo dovere e sia riuscita nel suo compito, non certo prima sulla base di criteri inappropriati e soggettivi.
Da questa breve disamina, si evince chiaramente che la situazione dei precari è tutt’altro che rosea poiché, rispetto al passato, si aggiungono tutte le difficoltà citate: diminuzione ore di insegnamento, confluenza delle classi di concorso, graduatorie sovraffollate, meritocrazia impropria e fittizia; tutti elementi che generano lotte tra i precari per la difesa della propria condizione a scapito di quella altrui. Una condizione priva di serenità e futuro che ha due sole vie di evoluzione: o attendere l’eventuale estromissione dalla scuola a causa di questa riforma, o la fuga verso altro.
Ma il permanere in questa condizione non è un atto di ignavia o di inerzia, è piuttosto un atto di passione, una scelta dettata dall’attaccamento ad una professione che l’insegnante si sente cucita addosso e verso la quale rivendica il diritto di poterla esercitare senza che le venga sottratta in nome di criteri totalmente estranei al mondo scolastico.
Ad ogni modo, non sono certo qui a voler suscitare pietismo, né tantomeno a fare un’apologia della classe docente. E’ una classe lavoratrice come tutte le altre, dove ci sono stakanovisti e scansafatiche, pignoli e grossolani, meritevoli ed immeritevoli, buoni e cattivi, esattamente come altrove, ma è il cuore di un organo cardine della società: la Scuola; là dove si sperimentano le dinamiche della società e della vita futura, lì dove l’embrione di individuo cresce, si forma, si rafforza e si prepara alla vita sociale. Può e deve esser migliorata, ma non nel modo in cui si sta procedendo. Gli sprechi ci sono come in altre aziende, pubbliche o private che siano, ma la sottrazione incondizionata di risorse non è utile, anzi, crea imprevedibilità nelle conseguenze cui poi si faticherà certamente a riparare.
L’unica cosa certa è che l’istruzione privata, sostenuta in modo unilaterale dal Governo, ne trarrà proficuo vantaggio. Appare inutile metter a confronto i grandi numeri in favore della scuola pubblica forse per giustificare i tagli, pari a 8 miliardi di euro, ed attenuarne l’impatto emotivo: 43 miliardi di euro per l’istruzione pubblica contro i 245 milioni di euro per quella privata non sono più confrontabili quando si pensa che le istituzioni pubbliche sono ben più numerose (divise in scuola materna, primaria, secondaria di I grado e di II grado). Se andassimo a verificare la ricchezza di risorse per singolo istituto, scopriremmo che è a tutto vantaggio dei privati.
In aggiunta a ciò, un altro segnale di come si sostenga l’apprendimento privato, danneggiando a priori quello pubblico, è il continuo fiorire di corsi post-diploma, cui gli allievi si iscrivono per sopperire alle mancanze dell’istruzione pubblica, soprattutto nella formazione di tecnici ed operatori professionali, e non per specializzarsi, come invece dovrebbe essere. Tutti corsi a pagamento, ovviamente!
Da giovane, ancor prima che laureato e precario, vi posso dire che la precarietà non è legata solo alla scuola: questa instabilità impedisce di poter costruire un futuro perché ovunque le certezze hanno un termine di tempo e ciò mette all’empasse due generazioni di giovani tra i 16 e i 32 anni, incerti nella quotidianità, bloccati nei progetti per il futuro, mozzati nei loro sogni. Per questo i giovani fuggono, è questo il termine esatto, dall’Italia in cerca di stabilità e speranza che qui non trovano più. Sebbene a malincuore, qui non vogliono tornarci a patto che le cose non cambino e questo è un ulteriore danno per il nostro Paese. Mi fa ancor più impressione constatare che, se prima il nostro Paese era meta agognata da stranieri in cerca di speranze e sogni, ora neppure i giovani immigrati vogliono rimanere qui e questo è sintomo di una condizione di sterilità dell’Italia sul piano sociale ed economico. A conferma di ciò, poche settimane fa, ho letto sulla stampa locale la notizia che, per la prima volta dopo dieci anni, la presenza di immigrati sul territorio biellese è diminuita e quindi è lecito pensare che altrettanto possa esser accaduto altrove: ecco allora un altro segnale di come la situazione sia peggiorata secondo una deriva inesorabile.
E’ necessaria un’inversione di rotta, è indispensabile che la Scuola torni ad essere punto focale della società, incubatrice efficace delle generazioni future, e per fare ciò ha bisogno di un Governo che la sostiene, la modifica e la migliora con i giusti modi, i giusti mezzi e tempi, e che si pone realmente al servizio degli Italiani senza che ciò rimanga lo sterile nome di uno sportello. Ha bisogno di genitori che desiderano un futuro migliore per i loro figli da subito con una Scuola efficace ed efficiente, ha bisogno di studenti che desiderino una Scuola vicina alle loro reali esigenze e la vivano attivamente, ha bisogno di uno stretto connubio con la realtà lavorativa locale e nazionale.
La Scuola non deve esser sinonimo di precarietà, al contrario dovrebbe ispirare principi di stabilità, certezza, speranza, fiducia, solidità. Per esser ciò, ha bisogno di tutti poiché è un bene comune prezioso attraverso cui è passata l’Unità d’Italia che abbiamo festeggiato pochi giorni fa…pensate, allora, a cosa saremmo senza di Essa e senza istruzione…
Il Comitato di agitazione permanente per le Scuole Biellesi esiste anche per questo: per la resistenza al piegarsi alle leggi del Governo, per l’irriducibile speranza di poter cambiare le cose, per l’ottimismo di poterlo fare, per la strenua convinzione che ce la possiamo fare, per la volontà di cambiare la Scuola. Io ci credo, noi del Comitato ci crediamo ma, lo sottolineo una volta di più, è necessario il contributo di tutti.
Chi ha il potere di cambiare le cose a livello locale, regionale e nazionale, di invertire la rotta e ci sta ascoltando, o ci ascolterà, cosa ne pensa? Non possiamo più aspettare: io come precario, il Comitato, i docenti, la Scuola, i giovani, l’Italia si aspettano da voi delle risposte sincere e delle proposte concrete.
La Scuola è il presente su cui costruiamo il nostro futuro: se lavoriamo poco nel nostro presente, se investiamo poco su di esso, quale futuro pensiamo di poter avere?
Davide Passuello