La lettera di una docente precaria in risposta alle critiche ricevute
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SCUOLA – Nessuno può nulla contro la modernità? Intendo quella che si declina con il trionfo della forma e delle “regole” per nascondere il vuoto della sostanza

Lungi da me sottovalutare il lavoro di coloro che hanno provato a dare una forma migliore alla pratica del nostro lavoro: è lodevole che ci abbiano provato e ancora di più che ci abbiano creduto…
Ma il mondo corre e noi con lui: e rinunciamo a guardare come lo faccia e dove vada. E quando lo facciamo ci adeguiamo fino a confonderci con esso per sentirci così più moderni…!

Un momento per riflettere, per interrogarci sul ruolo della scuola in questa fase, sugli obbiettivi che si può (deve) porre: potevamo concederci una pausa contro la velocità di superficie e andare in profondità? Potevamo liberarci dall’ansia di strutturare il nostro lavoro e domandarci: “come lavoro? per che cosa lavoro?”.
Potevamo analizzare risultati, scambiarci pratiche didattiche, esprimere bisogni per evitare di ricominciare domani con i mugugni? Questi ci saranno, è certo, quelli li sappiamo fare! Così come sappiamo evitare buona parte delle occasioni per fare un po’ di chiarezza: desideriamo immergerci in regole chiare, ma un po’ flessibili, per decidere poco, per scegliere qualche volta. Così costruiamo griglie e compiliamo schede per fare chiarezza nella forma del nostro lavoro ed evitare di domandarci della sostanza del nostro lavoro!

Sarà l’età e la lunga esperienza che mi impediscono di essere disperato, come lo sono altre/i molto più giovani di me e precari! Ma sono furioso per l’evidente e diffusa inadeguatezza e i risultati lo testimoniano.
Se non si pensa che debbano essere i giovani-utenti ad adeguarsi alla scuola, si deve trovare un modo per mettere in relazione la scuola con loro, per ottenere il massimo risultato e mettere in moto il processo di trasformazione culturale di cui la scuola è portatrice!
Saranno la gestione dei moduli e i recuperi connessi a garantire l’avvio di questo percorso? Saranno loro a farci superare la perenne insoddisfazione, che fa dire a molti “chi me lo fa fare?” oppure “non ho più voglia”?…
Noi preferiamo strutturare il nostro lavoro, nell’illusione che sia la strada principale per “fare il nostro lavoro”!

Questa è epoca di cambiamenti profondi, accelerati e distorti dalla crisi, che condizionano, come è ovvio, la scuola. Propongo, in estrema sintesi, una riflessione in tre punti…

1.    Noi insegnamo a giovani che tarderanno a immettersi nel mercato del lavoro: 1 su 2, circa, sarà disoccupato; degli occupati 2 su 3 saranno precari per almeno tre anni (e le nuova legge stabilizzerà questa condizione!) e svolgeranno lavori e mansioni in genere distanti dalle aspettative contenute nel ciclo di studi svolto.
Tutto ciò è percepito, quasi sempre in modo inconsapevole, dagli studenti e dalle studentesse: è evidente (al di là delle condizioni economiche e culturali di provenienza) il diverso approccio allo studio che hanno gli studenti del liceo, per i quali c’è comunque un “progetto di vita”, mentre per gli altri studenti l’incertezza del futuro è strutturale alla loro esistenza e condiziona fortemente le motivazioni e il processo di apprendimento…
In questo modo la scuola cambia funzione e diventa sempre di più un’area di parcheggio sociale ma allo stesso tempo l’unico luogo in cui si possono fornire gli strumenti per decifrare la contemporaneità, sia in ambito disciplinare che culturale.

2.    I giovani seduti nelle nostre aule sono figli di un epoca nella quale le informazioni e i sapere si trasmettono in modo molto diverso da quello utilizzato per la nostra formazione. Non sono più i libri, ma nemmeno la TV, a contribuire a formare il loro bagaglio di conoscenze, sono altri strumenti comunicativi che i giovani utilizzano, in modi e tempi diversi.
E almeno che si pensi che gli studenti siano dei contenitori da riempire, dobbiamo lavorare per entrare i contatto con loro, partendo da ciò che sanno per decostruire, smontare i luoghi comuni, le false informazioni e sostituire la superficialità con l’approfondimento: fornire loro gli strumenti per accedere a un pensiero critico in qualsiasi ambito disciplinare.
La priorità non è, quindi, inseguire la tecnologia e sostituire il mezzo cartaceo con quello telematico, fondamentale è rivedere le metodologie di insegnamento…;

3.    I livelli di disagio dei nostri studenti sono allarmanti. Non sono solo in aumento le certificazioni che attestano DSA o casi che ci inducono a riconoscere dei “bisogni educativi speciali” (BES), ma assistiamo, e non solo nel biennio, a diffusi comportamenti personali e collettivi di depressione, inquietudine, aggressività, ecc…
Sarebbe utile capirne le cause ma spesso non possiamo (e sappiamo) giungere a queste conoscenze, certamente però la scuola deve attivarsi per fornire strumenti idonei ad affrontare queste situazioni sia dal punto di vista educativo che didattico.
Non credo possa valere l’argomentazione per cui l’ambito disciplinare sia l’unico orizzonte delle nostre mansioni: credo che appaia chiaro a tutti che sapere tutto della disciplina che insegnamo non sia condizione sufficiente per insegnarla!
Appare necessaria non solo una formazione mirata per gli insegnati, ma anche la predisposizione di strumenti comunicativi e educativi che, lontani da inutili pratiche esclusivamente disciplinari  e repressive (i registri di classe pieni di note confermano l’inefficacia del metodo), aiutino a gestire la classe e ad inserire lo studente “problematico” nel percorso formativo.

Bene, a me sembrano queste le priorità. Soprattutto mi pare secondario approntare un percorso di strutturazione della disciplina (trimestri, quadrimestri, moduli, ecc…) e di valutazione (tipi di verifiche, recuperi, valutazione dei recuperi, ecc…) prima di aver provato a riflettere sulle condizioni dentro le quali noi agiamo, provato a decifrare il mondo giovanile contemporaneo e individuato gli obiettivi che potremmo porci per rendere efficaci i processi di apprendimento.
So bene che non può essere una chiacchierata a svelarci le soluzioni, ma trovo inaccettabile far finta di niente e credere che dei tecnicismi possano migliorare il nostro lavoro quando, mi pare, siano sempre di più le difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di farlo bene!

Come sempre scusatemi per l’invadenza: mi dico tante volte di smetterla ma non ne sono capace!

MARCO SANSOE’

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