La schizofrenia oggi colpisce circa l’1% della popolazione mondiale presentandosi, per lo più, nella vita dell’individuo tra i 18 ed i 25 anni di età.
Con l’avvento dei farmaci antipsicotici la vita dei soggetti affetti da questa patologia è cambiata radicalmente perché prima era difficile far fronte a quelli che erano i cosiddetti sintomi positivi (alternanza di deliri, allucinazioni ed aggressività) ed ai cosiddetti sintomi negativi (prostrazioni letargiche). Senza contare il fatto che essi vivevano un senso della vita che chiamare mostruoso è riduttivo. Grazie all’utilizzo farmaci, infatti, si è potuto agire per lungo tempo, ed ancora oggi si riesce a ad incidere più o meno positivamente sul decorso della malattia, dopo che per anni l’unica risposta di una società autoritaria e non in grado di far fronte alle esigenze di questi pazienti ha fatto sì che il letto di contenzione o la segregazione riducessero centinaia di soggetti schizofrenici in condizioni davvero pietose acutizzando ancora di più una situazione di vita già complicata dalla presenza della malattia.
Molto dobbiamo agli studi ed al colpo di genio di un biologo francese, Henri Laborit, etologo e filosofo, che nel 1952 pensò bene di utilizzare una nuova sostanza usata negli interventi chirurgici per aumentare l’effetto anestetico, come mezzo per trattare le psicosi. Era la clorpromazina, rivelatosi un ottimo antipsicotico soprattutto nel controllo dei sintomi “positivi” della schizofrenia che tuttora viene impiegato nel trattamento della patologia.
Negli anni ’60 il medico belga Paul Janssen introdusse l’aloperidolo, che pur essendo più potente andava ad agire poco sui sintomi negativi, producendo pesanti effetti collaterali per il difficile dosaggio che rischiava di ridurre i pazienti in larve umane per combatterne gli stati agitatori.
Negli ultimi anni, infine si punta molto sulla clozapina, un antipsicotico atipico sintetizzato negli anni ’70 che però può portare problemi di agranulocitosi (significativo abbassamento dei globuli bianchi) e per questo prima fu ritirato dal produttore ma poi, a seguito di ricerche, è stato reintrodotto come psicofarmaco di punta nel trattamento di soggetti schizofrenici che non rispondono positivamente alle altre terapie farmacologiche.
Allo stato attuale non si può parlare di un farmaco per eccellenza nella cura della schizofrenia anche perché si tratta di una patologia strettamente legata alla soggettività di chi ne soffre. Risulta pertanto importante, in questo frangente, affiancare alla prevenzione un approccio integrato che favorisca da un lato la cura del paziente schizofrenico e dall’altra la sua individualità, permettendogli di vivere la vita in modo più o meno sereno (attività di sostegno, riabilitazione, terapie occupazionali…).
Le ricerche hanno individuato come periodo di esplosione della malattia la fine dell’adolescenza e la prima giovinezza, periodo in cui si è maggiormente sottoposti allo stress legato all’integrazione nella società. La ricerca di una sensazione di benessere, di accettazione nella società, l’influenza di altri coetanei può portare ad un senso di inadeguatezza e conseguentemente all’uso di sostanze psicotrope che vanno ad agire sul cervello in modo spesso irreversibile. È il caso dell’uso prolungato e massiccio di droghe, soprattutto quelle psicostimolanti (cocaina, amfetamine) utilizzate spesso in situazioni di amicizia oppure per gestire e mantenere il peso corporeo entro certi canoni che la società ci impone. Queste sostanze vanno ad agire sulla trasmissione della dopamina e della serotonina, alterandone le quantità a livello neuronale e quindi funzionano da fattore scatenante di una disorganizzazione latente dei circuiti cerebrali.
Non dimenticando l’incidenza genetica e quella ambientale nell’esordio di questa patologia, un’adeguata prevenzione legata a comportamenti di vita sani può essere un buon passo avanti nella gestione della malattia.
Un’altra considerazione può essere fatta anche in relazione al cibo. La serotonina e la dopamina derivano infatti dalla scissione degli amminoacidi contenuti nel cibo, pertanto la qualità del cibo che si consuma può avere un’incidenza sulla loro produzione, così come il cervello è risultato sensibile ad alcune sostanze contenute nel cibo stesso. È il caso di cibi con alto contenuto di glutammato, trasmettitore ad alto tasso eccitatorio, la cui disordinata trasmissione a livello cerebrale è spesso implicata nella schizofrenia.
Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta