Più volte ci siamo lamentati pure noi, le scelte operate dai Beni Culturali circa 50 anni fa per difenderlo dalle intemperie in relatà lo hanno danneggiato nell’anima e nel fisico, ad indignarsi, oltre a noi, è Gian Antonio Stella, nota firma del Corriere della Sera e autore del libro di successo “La Casta”. Il giornalista sul quotidiano di via Solferino scrive parole di fuoco dopo aver visto come è ridotto l’anfiteatro Greco di Eraclea M inoa, abbiamo riportato l’articolo sulle nostre pagine.
C’è da avvampare di vergogna, a vedere com’è ridotto lo stupendo teatro greco di Eraclea Minoa. La «pensata» di chi mezzo secolo fa suppose di difenderlo facendogli una mantella di plexiglass si è rivelata un disastro. E lo scheletro dell’osceno «parapioggia» successivo, semidistrutto e sgangherato, resta lì, spettrale. A inorridire i turisti. Scossi dallo spreco di tanta bellezza.
Hanno qualcosa del fascino di capo Sounion, queste rovine alte sul mare a metà strada tra Agrigento e Sciacca. Se in punta all’Attica svettano solenni sull’Egeo le colonne dell’antico tempio a Poseidone, qui domina la magia del teatro. Un teatro che, a dispetto dei precetti di Vitruvio, fu costruito tra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo come ad Atene e Siracusa, cioè con la cavea aperta a Sud. Spalancata sul fantastico mare blu nel quale, lontano lontano, in certi giorni limpidissimi, si vede perfino il profilo di Pantelleria. Un sogno.
La costruirono proprio in un gran posto, l’antica Eraclea Minoa, fondata probabilmente nel VI secolo a.C. da coloni della vicina Selinunte e difesa un tempo da una imponente cinta muraria lunga almeno sei chilometri. Ritta e solenne sul promontorio che oggi si chiama Capo Bianco e che si staglia con le sue pareti bianche verticali, guardando il mare, a sinistra della foce del fiume Platani. Sopra una spiaggia lunga lunga protetta alle spalle da una pineta così bella da nascondere in parte perfino gli insediamenti edilizi.
Il teatro, però, è fragilissimo almeno quanto è bello. Individuato nel Settecento ma portato alla luce solo nel 1953, mostrò subito d’aver bisogno di cure. Non è di marmo, infatti. Né di pietra dura. I gradoni dei nove settori arrivati fino a noi sono infatti in conci di «marna arenacea». E la marna, spiega la Treccani, è una roccia argillosa che può essere tenera (come qui) e viene usata per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica: «Un problema grosso», spiega Caterina Greco, sovrintendente di Agrigento dopo essere stata a Selinunte dove riuscì a vincere la battaglia per togliere le impalcature che da 11 anni ingabbiavano il tempio C, «sotto il vento si sfarina e quando piove si “impacca” come se fosse gesso».
Appena se ne accorsero, a metà degli Anni 50, si chiesero: cosa fare? La prima soluzione, proposta dall’Istituto centrale del restauro, fu una spennellata di resina speciale per rendere i gradoni impermeabili in eterno. Macché: un fallimento. La seconda soluzione fu avanzata dall’architetto viterbese Franco Minissi. Il quale scelse di coprire «integralmente la cavea con una sorta di vetrina incolore e trasparente in loco».
Lo racconta, riprendendo le sue parole, l’archivio degli architetti (architetti.san.beniculturali.it) dove Minissi si loda e s’imbroda spiegando che «aveva già sperimentato l’uso del plexiglass su monumenti archeologici» e che è «a Eraclea che il suo obiettivo di rappresentazione del modello originario si espletò nella maniera più compiuta» e «il disegno delle sagome raggiunse qui la massima precisione» e la ricostruzione riuscì «perfettamente incolore e trasparente». E giù elogi alla «perfetta tenuta delle saldature delle lastre» e «all’isolamento termico e alla areazione della camera d’aria risultante tra le superfici del monumento e la copertura in perspex» e «ai sistemi per evitare ogni infiltrazione di acqua e di vento»…
I risultati sono quelli che vedete in una delle foto. Un paio di decenni e i gradini «perfettamente incolori e trasparenti» erano già giallastri. Ma soprattutto, nella intercapedine tra quei gradini di plexiglass (sorretti da 700 pali conficcati nella carne stessa del teatro con trapani dalla punta spropositata!) e i sottostanti gradini di marna, erano cresciute piante abnormi esasperate d’estate dal caldo torrido e nei mesi piovosi da una condensa di umidità pazzesca. Conclusione: i gradini si erano decomposti.
Fu così che, pensa e ripensa, nel ‘95 rimossero una parte di quella copertura insana, disboscarono la giungla cresciuta sotto, ripulirono quanto restava della gradinata. Finché si decisero a togliere tutto. E ora? Pensa e ripensa nuovamente, nel ‘99 scelsero di coprire tutto il teatro con una specie di parapioggia che seguiva le forme della cavea. Un ammasso orrendo di tubi Innocenti e pannelli che, spiega l’ex sindaco Cosimo Piro, il quale proprio sul teatro si è laureato (sia pure tardivamente) in architettura, «doveva servire solo il tempo necessario agli operai per fare tutti i lavori di riparazione e protezione con un nuovo tipo di “silicato di etile”. Solo che, come tante cose in Italia e soprattutto in Sicilia, il provvisorio è ancora là…».
Peggio: quella specie di osceno parapioggia sorretto da un inestricabile groviglio di tubi e di snodi perde i pezzi da anni e oggi perfino la sua unica funzione, quella di proteggere il teatro dall’acqua è venuta meno. «È una vergogna da rimuovere prima possibile», ha chiesto il sindaco di Cattolica Eraclea, Nicolò Termine, in un’intervista a Calogero Giuffrida, del Giornale di Sicilia. «Per valorizzare al meglio il nostro bene culturale più prezioso ma soprattutto per proteggerlo, perché l’attuale impalcatura anziché tutelarlo lo sta ulteriormente rovinando».
L’assessore regionale ai beni culturali, Mariarita Sgarlata, è d’accordo. E insomma non ce n’è uno che ancora difenda quel mostro di acciaio e vetroresina. Va tolto. Ma poi? Questo il problema: poi? Stringi stringi, dopo i danni inferti a quell’opera meravigliosa da decenni di interventi improvvidi, le ipotesi sono tre. La prima: togliere l’atroce parapioggia di oggi e lanciare un grande concorso internazionale per proteggere con un nuovo contenitore (una mezza cupola spalancata verso il mare?) ciò che resta del teatro. La seconda: rifare la cavea del teatro, con amore e con garbo, in marmo scegliendo (con orrore dei puristi più ortodossi) di dare la precedenza non alla sacralità intangibile della marna originale ridotta a poltiglia solidificata ma all’idea antica di «quel» teatro, costruito in «quel» luogo, davanti a «quel» panorama. È irragionevole? La terza: seppellire tutto e lasciarlo lì, accontentandoci del ricordo di un francobollo celebrativo, finché i nostri figli o i nostri nipoti non avranno studiato bene cosa fare.
E proprio questo, spiega il professor Bruno Zanardi, intervenuto tra l’altro su due gioielli quali la Colonna Traiana e l’Ara Pacis, è il nodo: «I dubbi sul teatro di Eraclea Minoa racchiudono uno dei grandi problemi italiani. Cioè che da troppo tempo, da noi, non si studiano questi temi con la necessaria scientificità. C’è fretta di decidere, di colpo, su quel teatro. Ma la cultura scientifica su queste cose è in drammatico ritardo».