Scuola – Convitti Italiani Moderni: nuovi convitti e vecchi che rischiano la chiusura, il parere di chi ci lavora
Gianluca Parisi
Non passa anno che si ha notizia di chiusura di un convitto: l’anno scorso a Cassino in provincia di Frosinone, quest’anno in provincia di Pescara a Capagatti, ma aprono anche nuovi convitti come il caso di Brunico in provincia di Bolzano. Oppure si ha notizia della costruzione di un nuovo convitto in sostituzione di un edificio vecchio come il caso di Pandino in provincia di Cremona.
Fatto sta che dei Convitti Italiani la nostra società non può farne a meno. Seppur poco conosciuti, sono molto radicati sul territorio nazionale e le liste di attesa per entrarvi a studiare sono sempre piene, sopratutto per quanto riguarda gli istituti professionali alberghieri e i licei europei, quest’ultima prerogativa dei Convitti Nazionali.
Ma proprio sul liceo europeo, su quella che viene definita l’internazionalizzazione dei convitti nazionali che dovrebbero chiamarsi collegi internazionali sembra tutto lasciato nell’inarbitrarietà generale.
A far luce sulla questione tre educatori Marco Bencivenga, Vittorio Balestrieri e Antonio D’Auria che con una nota inviata alla stampa fanno sapere: “Metti una legge finanziaria scritta in nove minuti e mezzo che ti obbliga all’efficienza contabile e un ministro che ti chiede di autoestinguerti, pena la tua progressione di carriera. E metti pure una legge finanziaria di un governo precedente che ha decretato chiusure e accorpamenti, metti ancora un gruppo di persone senza altri sbocchi lavorativi ed ecco i Convitti, strutture che esistono ancora, malgrado il fatto che in esse sopravvive la piccola comunità lavorativa degli educatori.
Si tratta di poco più di duemila persone in tutta Italia, pur ondeggianti fra chi, intimidito dalle politiche dirigenziali e ministeriali non vuol crescere – illusoriamente convinto che nessuno si accorga di lui fino alla pensione – e chi, invece, vorrebbe discussione educativa al fine di rilanciare gli istituti e, con essi, la funzione educativa dello Stato.
Premesso che tutti gli educatori, indifferentemente, vogliono che queste scuole restino in vita, appare chiaro che la crisi strisciante di questo settore della pubblica istruzione risiede nell’avere provato ad ‘aziendalizzare’ il rapporto di esse con la domanda, legando ad una rispondenza con l’utenza la ragione d’essere del pagamento delle rette quando, in mancanza di strumenti oggettivi di misurazione dell’efficienza anche semplicemente di tipologia imprenditoriale, esse sono il semplice pagamento di un servizio pubblico.
Già, perché riforma dell’autonomia e mancata applicazione dei Decreti Delegati hanno trasformato i convitti in luoghi di non discorso, funzionali ad un conculcamento della democrazia, a tutto vantaggio di una privatizzazione surrettizia del sistema diventando, in questo, avanguardia delle nefandezze che il progetto di legge Aprea-Ghizzoni (che rumors parlamentari danno pronto per l’imminente ripresentazione) vorrebbe attuare.
Eppure, democrazia e la collegialità, pur mai organicamente sistemate per il personale educativo, che si deve accontentare di un collegio educatori normato da circolare ministeriale, sono alla base della creatività ed essenziali ad un discorso educativo di crescita di quei cittadini in divenire che sono gli allievi, tanto più importante ora che tutta la scuola italiana dovrebbe farsi carico di un’interfaccia sociale interculturale.
Però, qualche dirigente ancora gioca a realizzare corti dei miracoli, organici di genere su base sessista, e piccoli gruppi di potere funzionali solo alla chiusura. Addirittura la normativa sul dimensionamento ha prodotto la figura del rettore reggente, non potendo i convitti nazionali essere accorpati ad altre scuole in quanto muniti dell’identità giuridica rappresentata dai Consigli di Amministrazione, altro strumento magico. Esso infatti sovente, in raccordo col dirigente o autonomamente, riesce a tirar fuori dal cilindro occasioni di lavoro e incarichi con forme privatistiche, col solo risultato di infoltire la selva di tipologie contrattuali presenti, al di fuori di ogni pianificazione pubblica, ingenerando aspettative di clientelismi e nepotismi.
E forse proprio la mancanza di quest’ultima consente ad alcuni dirigenti di convitti di usare gli istituti come il giardino di casa propria, purtroppo in affitto.
Essi appaiono come commissari liquidatori di un settore che si vuole espunto dal sistema pubblico d’istruzione e che, tuttalpiù, può essere utilizzato per sperimentazioni ibride e pericolose, in attesa di un definitivo accantonamento che lo porterebbe a morte certa.
C’è tuttavia un’altra possibilità. Rimettere al centro la discussione educativa, evitare i convegni dei “fedelissimi” per portarla nel cuore delle problematiche di governance, fra i lavoratori, le famiglie e gli studenti. Occorre dire che le ragioni d’essere dei convitti permangono nella scuola del dimensionamento e che essi non possono essere scuola d’élite perché il bisogno di una scuola orizzontale è forte nei tempi che viviamo.
E infine, va buttato al macero l’intero sistema di leggi e leggine e regolamenti e circolari, con esse – che hanno permesso al governo di queste scuole di veleggiare fra ottocento e novecento, mentre il mondo cambiava.
Leggi chiare, lineari e democratiche potranno rilanciare la funzione educativa, e lasciarci alle spalle l’autoritarismo e la miopia burocratica con cui si stanno strangolando i convitti. Con la complicità della vittima?
Forse, ma soprattutto con attacchi e colpi di mano silenti, portati nell’ombra, e spacciati per grandi innovazioni, contro il personale educativo, da parte proprio di quei Dirigenti Scolastici che dovrebbero invece far grandi le proprie Istituzioni Educative.