Questa lettera è stata appena spedita al Ministro Maria Chiara Carrozza, per ricordarle che in Italia, benché si sostenga da più parti e da molto tempo di voler segnare l’avvio di un corso contrario, concetti come “merito” e “competenze” sono demagogici e strumentali. Infatti, mentre anche a livello istituzionale si propongono le riforme o le semplici scelte politiche riguardanti il mondo della cultura, della ricerca e dell’istruzione, che millantano la valorizzazione del merito appunto, all’atto pratico il MIUR, in modo sommerso e poco accessibile all’opinione pubblica, disperde risorse umane che, tra l’altro, ha contribuito a formare. Si tratta, nello specifico, dei Dottori di Ricerca che, come non è noto ai nostri politici, sono studiosi studiosi con una formazione scientifica di altissimo livello, corrispondente al più alto grado di istruzione universitaria, accreditata in tutti i Paesi del mondo, spesso con numerose pubblicazioni scientifiche all’attivo, ma che nel nostro Paese non possono contare su un adeguato riconoscimento
All’On. Ministro dell’Istruzione Prof.ssa Maria Chiara Carrozza
Con la pubblicazione del decreto Miur 10 settembre 2010, n. 249, in G.U.R.I. 31 gennaio 2011, n. 24, suppl. ord. n. 23, che definisce e disciplina i requisiti e le modalità della formazione iniziale degli insegnanti, è stato previsto che tutti i dottori di ricerca, tutti gli assegnisti di ricerca con anni di servizio presso le università italiane, si sottopongano assieme ai neo-laureati, ad una triplice selezione, per poter accedere ad un corso di formazione iniziale per insegnanti, anche nel caso paradossale che questi studiosi abbiano già maturato anni e anni di docenza nella scuola e che abbiano numerose pubblicazioni scientifiche negli stessi ambiti disciplinari per i quali li si vorrebbe formare. Questo che consideriamo frutto di scelte del tutto sconsiderate prese dal Miur durante le gestioni precedenti ha portato moltissimi dottori di ricerca e assegnisti di ricerca italiani ad aprire un importante contenzioso con l’Amministrazione.
Ora, è noto che il titolo di dottore di ricerca è una qualifica professionale coerente con le definizioni adottate in ambito comunitario, ed è requisito preferenziale per il conferimento da parte delle università di incarichi di docenza o di contratti di ricerca. Quest’ultimi infatti, come ben precisa una nota ministeriale del 12 marzo 1998, protocollo n. 523 (che richiama l’art. 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449) non sono attivabili “con neo-laureati privi di ulteriori titoli di formazione alla ricerca o di documentata ed idonea esperienza per attività di ricerca già svolta, ovvero di curriculum scientifico-professionale adeguato”. Lo conferma nuovamente l’art. 1, comma 10 della L. n. 230/2005, che afferma che “sulla base delle proprie esigenze didattiche e nell’ambito delle relative disponibilità di bilancio, previo espletamento di procedure […] che assicurino la valutazione comparativa dei candidati e la pubblicità degli atti, le università possono conferire incarichi di insegnamento gratuiti o retribuiti, anche pluriennali, nei corsi di studio […] a soggetti italiani e stranieri, in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali […] e a soggetti incaricati all’interno di strutture universitarie che abbiano svolto adeguata attività di ricerca debitamente documentata”.
Senza tenere adeguatamente conto di questi dati, il citato decreto M.I.U.R. 10 settembre 2010, n. 249, dissipando con un’ottusità inaccettabile un fondamentale capitale umano, equipara invece i dottori di ricerca italiani e anche tutti coloro che dopo aver conseguito questo titolo hanno svolto per anni attività di ricerca scientifica sulla base di rapporti di lavoro a tempo determinato (costituiti ai sensi dell’art. 51, comma 6 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, ovvero dell’art. 1, comma 14, della legge 4 novembre 2005, n. 230), a dei neo-laureati, obbligandoli a sottoporsi ad un test a crocette, ad una successiva prova scritta e infine ad un esame orale, al fine di accertare le loro “conoscenze disciplinari”, affinché possano accedere ad un corso di “formazione iniziale” per insegnanti nelle scuole secondarie di primo e secondo grado (scuole medie e superiori).
E tutto ciò calpestando la Direttiva 36/2005/CEE (recepita nel nostro Paese con il D.Lvo 9 novembre 2007 n. 206, che prevede che l’esperienza professionale, intesa quale “esercizio effettivo e legittimo della professione in questione in uno Stato membro” (cfr. art. 3, lett. f), sia “assimila[ta] a un titolo di formazione” purché questa sia pari o superiore ai tre anni. E infatti, molti docenti comunitari con diplomi di laurea esattamente equivalenti a quelli italiani, ma con tre anni di esperienza di insegnamento, sono stati con numerosi decreti dichiarati abilitati dal Miur a svolgere la professione di docente in Italia, scavalcano puntualmente tutti i docenti e tutti i dottori di ricerca italiani anche con una pluriennale esperienza di insegnamento.
Paradossale è, anche, che tale Direttiva sia richiamata nella modifica al decreto Miur 10 settembre 2010, n. 249, con cui si istituiranno i TFA speciali e che, come il regolamento stesso, non contempla un trattamento adeguato all’alto profilo proprio dei Dottori di Ricerca che dovranno, in base ai decreti attuativi relativi ancora non ufficiali, sottoporsi ad un test di cultura generale per accedere ad un corso di formazione, concluso il quale potranno unicamente svolgere la professione di “docente” esattamente come stanno già facendo da anni.
Non prevedere che studiosi con una formazione scientifica di altissimo livello corrispondente al più alto grado di istruzione universitaria riconosciuta in tutti i Paesi del mondo, spesso con numerose pubblicazioni scientifiche all’attivo, accedano attraverso un canale preferenziale ai ruoli nella scuola è molto grave. Ma permettere che questi studiosi, anche in quei casi in cui abbiano già maturato numerosi anni di esperienza come docenti nelle scuole italiane, direttamente alle dipendenze del Miur, siano ingiustamente scavalcati da docenti con il solo diploma di laurea che arrivano in Italia da altri Paesi della UE, è iniquo e del tutto inaccettabile per un paese civile.
Roma 13 Maggio 2013
Valeria Bruccola e Luca Sartorello